Non mi facevano domande ed era piacevole vedere come non si
meravigliassero di nessuna delle mie azioni, anche quelle più spinte per
provocarli. Non dicevano mai neppure una parola, neanche quando sgozzai
un viaggiatore al quale avevo fatto finta di chiedere informazioni lungo
un sentiero polveroso tra colline solitarie. Forse erano abituati, ma
che importanza aveva.
La prima sera ci fermammo vicino ad un fiumiciattolo, accesi un fuoco e
li invitai a riposare vicino ad esso. Loro si scambiarono qualche
sguardo ed accettarono il consiglio senza dir nulla. Erano davvero
taciturni. Arrostirono dei funghi colti durante il viaggio e si
addormentarono.
Io ne approfittai per girare un po’ da sola, mi piaceva tanto potermi
finalmente godere in silenzio la notte, calda e rassicurante e poi avevo
fame, di dolore. Sapevo muovermi senza fare rumore grazie agli anni di
lunghe traversate, sempre sola. C’era un alce dietro una roccia
sporgente ed io lo attesi. Gettai la spada a terra e quando si avvicinò
a me mi ci lanciai contro di petto. Sentii le sue corna trafiggermi il
ventre. Ah incredibile piacere di caldo sangue che scorre, una fitta
forte, sorridevo a quel cielo buio senza luna e cercavo il pugnale
dietro la mia schiena. Nessuna sofferenza per lui, il dolore è degno
solo di chi sa amarlo, agli altri morte veloce, senza gusto. Gli tagliai
il collo mentre cercava disperatamente di aggrapparsi alla vita, come
mai avevo fatto io. Sono maledetta, straordinariamente maledetta dal
Fiore Nero, mi tortura di spasmi quando glielo chiedo, nulla di buono
può avvicinarsi o nascere con me. Ma cos’è buono? Calde quelle carni
ancora vive e pulsanti ma dovevo cuocerle prima, non amo la carne cruda,
mi piace il fuoco. Bruciare.
Tornai verso l’accampamento, loro stavano dormendo ed io ancora gemevo
di piacere premendomi lo squarcio sul ventre, torpore irrigidiva le mie
mani, presto purtroppo sarebbe passato.
Avevo tagliato la carne dell’alce a piccoli pezzetti ed erano tutti
infilati in un lungo bastoncino. Solo il necessario per sfamarmi, il
resto lo avevo lasciato alla carcassa per eventuali predatori affamati.
Bisogna aiutarsi tra amici. E poi la lotta a me, a loro il cibo. La
lotta è solo mia.
Rianimai le braci quasi spente e sedetti accanto al fuocherello
rigirando la carne sul calore, grasso colava sui carboni accendendo
frecce e scintille che subito si spegnevano.
“E buona vero la carne appena cacciata e calda?” mi chiese la donna che
si era svegliata ed alzata a sedere sul suo giaciglio di pelli. Mi
guardava in modo strano, l’avrei sgozzata volentieri ma non potevo far
arrabbiare l’uomo, dovevo prima avere quel tesoro. Mangiai un primo
pezzetto, quasi crudo, incandescente, mi bruciai la lingua. Era ottima
sì, quel dolore era solo l’inizio del gusto che si impossessava della
mia bocca. Forse avrò fatto un gesto che doveva sembrare un invito
perché lei mi disse “No non mangio carne, grazie”, non magia carne, era
insignificante quella donna, anche nei gusti.
Mi chiesi perché si muovesse verso me come una pantera affamata mentre
si avvicinava al fuoco carponi. Non era quello che avevo in mente la
compagnia. La notte è mia, mi appartiene, odio chi mi disturba. Mi
fissava mentre mi sporcavo labbra e mento di grasso incandescente, di
sangue caldo, era davvero ottima quella carne, il dolore sul ventre
spariva, perché mi tortura così la mia bella dama? Perché non mi ha
fatto meno resistente? La donna non poteva vedere però, il mio sangue si
stava raggrumando sotto la fascia di cuoio del corpetto, quel dolore era
solo mio. Mi stava fissando con insistenza, sorrideva. Come le avrei
volentieri graffiato via quegli occhi, rivoltante.
“Come sei bella, la tua pelle sembra quella di una statua, ti osserverei
per ore ed ore” mi stava parlando con quella vocina stridula, perché mi
guardava come se mi desiderasse? La faccio smettere subito se non lo fa
da sola. Smisi di masticare “Dovete dormire, domani si riparte di buon
ora se vogliamo arrivare al cimitero prima che il sole sia alto sulle
nostre teste” va a dormire sciocca, inutile donna, dormi e lasciami
godere di questi momenti, sola col mio dolore, il sapore, il fuoco. Lei
mi guardò ancora in silenzio e poi eseguì l’ordine, sì perché il mio era
un ordine. Si rimise a dormire. Ancora uno spasmo, mi toccai il ventre,
sangue, era mio così come quella carne selvatica e calda. Lasciai che
ogni mio istinto si chetasse, la fame saziata, il desiderio del dolore
languiva ancora tra le mie carni ma chiesi alla notte di farmi dormire e
così fu.
Qualcosa mi sfiorò i capelli la notte, l’ho sentito, la mattina il mio
squarcio non c’era più, il ventre liscio senza nessun segno. Come era
possibile? Non potevo chiederlo ad alcuno. Forse il mio Fiore Nero
voleva punirmi perché non avevo ucciso quella donnicciola, perché
preferivo possederne il denaro. Vi è tempo però, sto rimandando, Sì
avevo deciso, l'avrei uccisa.
Ci rimettemmo in viaggio di buon’ora, lui non aveva detto una sola
parola al risveglio, ogni tanto guardava lei e le stringeva la mano, un
sorriso e poi tornava nel silenzio. Non mi guardava mai.
Trovai un passaggio stretto tra due rocce, lo conoscono in pochi, e
trascorremmo così diverse ore a percorrere una stretta gola dove non
giungeva quasi il sole. Puntellai con la spada su un mucchietto di
foglie e muschio vicino ad una parete molto liscia, pensai che quelle
foglie non erano state portate lì dal vento e non vi erano alberi nelle
vicinanze. C’era qualcuno lì vicino e era appena passato. Camminammo
ancora per qualche tempo, lei a volte mi guardava, sorrideva, io la
vedevo già morta, non so perché ma aveva la faccia dei cadaveri in
decomposizione. Cos’era il mio, desiderio? Il futuro? Il Fiore Nero? Non
aveva importanza.
Finalmente aprì bocca quello strano uomo, con sangue misto, aveva una
voce così bassa, non lo ricordavo “Lasciatela lì, continueremo il
viaggio da soli io e voi” ed indicava la donna che gemeva in una buca,
una trappola per orsi forse, era caduta ferendosi una gamba. Quelle
foglie ecco cos’erano, trappole. Ah se solo fossi caduta io, dolore. “E’
ferita arresterebbe il nostro cammino. Oramai siamo vicini” continuò.
Com’era freddo, un umano così freddo. Le sorrideva prima ed ora la
lasciava morire e lei tra le urla insisteva “Lasciatemi qui, non
fermatevi”. Sì sono gli umani più assurdi che abbia mai visto,
disarmanti, ma non potevo permettere che una stupida buca facesse quello
che io dovevo fare, io dovevo strapparle quegli occhi, dovevo ucciderla,
io, solo io. Fingere, sono brava a farlo “Cosa dite? Siete impazzito?
Morirà così, la tiro fuori da lì e rallenteremo un po’ il passo, so
curare comunque le ferite” e srotolai la corda che portavo nella mia
sacca, lui mi fermò il braccio con prepotenza “No, ho detto. Lei è mia e
decido io cosa farmene. Tu devi eseguire i miei ordini, ti ho dato un
largo anticipo per questo ed altro oro ti attende lì” “Ordini? Non
prendo ordini da nessuno. Fate come vi pare, la donna è la vostra e non
toccatemi” gli indicai la mano ancora stretta sul mio braccio, perché mi
dà del tu? Come mai questa confidenza ora? Uccido prima lui.
Ora lei urlava di salvarla, non voleva stare lì, chiamava me, urlava il
mio nome. Dovevo farla smettere. Mi infastidiva anche il sorrisino di
lui, mentre strusciava la sua mano sul mio braccio e poi lo lasciava.
Sì, dovevo ucciderli entrambi, prima l’oro però.
Finalmente riprendemmo il cammino, lui ed io, in silenzio, le urla ce le
eravamo lasciate indietro, il mio nome smetteva di echeggiare tra quelle
pareti rocciose. L’ingresso di quelle che chiamano catacombe si vedeva
già in lontananza: era un’apertura tra pietre grigie che spezzavano il
monotono colore verde dei rampicanti alla fine di una piccola macchia di
bosco. Giungemmo lì e ci fermammo “Bene ci siamo, il mio viaggio finisce
non appena vi condurrò dentro e vi indicherò la discesa per le tombe, vi
accompagnerò fino alla vostra cripta e mi darete l’oro, poi ci
lasceremo” lui era d’accordo, meglio così. Che nauseante odore, la carne
marcia, la muffa, poi un’ombra veloce ci passò attraverso. Sentii dolore
sul ventre, finalmente ancora dolore, tutto mio. Eppure la ferita non
c’era più, lui mi sorrise ambiguamente, chissà perché. E chissà perché
camminava come se già conoscesse quel luogo. Non aveva importanza. C’era
troppo silenzio, nessuna presenza e giungemmo davanti ad una cripta
chiusa da vetri sporchi ed opachi. Lui estrasse una chiave scura e lunga
e aprì l’ingresso. Dentro c’era solo una pietra rettangolare a terra,
sulla quale erano state scolpite due stelle a sei punte, vicine. In un
angolo una lanterna spenta e coperta di polvere spessa e grigia. Mi
fermai sull’uscio e lui entrò, sollevò quella pietra, potevo vedere per
la prima volta i muscoli forti delle braccia. Si sollevò una polverina
verdognola dalla buca che aveva appena scoperchiato, mi ritrassi, non
amavo gli odori dei cadaveri, volevo il dolore, come lo stavo
desiderando in quel momento. La mia debolezza.
Lui si chinò a terra e raccolse qualcosa da dentro quella buca, uno
scrigno di madreperla. Me lo porse e mi disse sorridendo “Aprilo, quello
che c’è qui è anche tuo” era mio tutto sì e lui non lo sapeva. Potevo
prendere lo scrigno e poi spingere lui nella buca, ucciderlo
tagliandogli la gola, staccandogli la testa e lasciarlo lì. Gli uomini
amano la sepoltura, niente fuoco per lui. Lo scrigno era nelle mie mani,
mio dovevo solo capire cosa ci fosse lì, quanto oro poteva esserci in
uno scrigno non troppo grande. Se era stato un imbroglio lo avrei ucciso
nel peggiore dei modi, lo avrei strozzato con le sue stesse interiora.
Aprii quello scrigno e... no! Come è possibile è un cuore, un cuore
pulsante, vive, dannazione che cosa significa! Lui era dietro di me, mi
cingeva la vita con le sue braccia forti, premeva le mani sul mio ventre
con violenza, dolore, piacere. “Avevi dimenticato il cuore dell’alce,
mai lasciare agli avvoltoi il cuore di una preda, non si sa mai cosa ne
possano fare” mi stava scostando i capelli dal collo e mi baciava
mordendo con le labbra. Non potevo resistere oltre, anche se
l’insaziabile piacere che si era rifatto vivo nel mio ventre mi
immobilizzava, volevo goderne, dovevo reagire, lo dovevo uccidere. Mi
girai veloce e gli puntai il pugnale alla gola “Cosa significa? Dov’è
l’oro? Parla o ti uccido all’istante” “No piccola perla nera tu non puoi
farlo, lo sai, io sono immortale come il dolore che ora ti rende lo
sguardo languido, sono quello che vuoi, la dannazione, il tormento. Lei
invece quello che non hai, la pazienza, la sottomissione. Lei ti vuole
così come vuole me, come io voglio te. Ma tu resterai qui, nel mio
scrigno, solo per me perché in te vi sono io oramai” mi disse lui
sfiorandomi solo con lo sguardo il ventre che ora bruciava, com’era
possibile? Fiamme nel mio corpo, dolore, mi consumava e non riuscivo a
reagire. Può il Fiore Nero avermi fatto tale dono? Dolore eterno,
invisibile, solo mio? Devo ucciderlo. Lo scrigno cadde a terra e la
madreperla che lo ricopriva si frantumò, quel cuore iniziò a pulsare sul
pavimento di pietre e terra. Tun Tun! Pulsava ancora senza sosta, vivo.
“Non provare a ribellarti Waela, l’alce ero io, quel cuore è il mio, io
sono entrato dentro te, tu hai mangiato la mia carne, goduto del dolore
che io ti ho dato. Lei non sa o forse sa, lei ti attende ancora. No non
sono un demone sono il tuo Fiore Nero, ho mille volti, ho mille
sentimenti, ho mille corpi, ti ho scelta. Mi appartieni ed è quello che
vuoi anche tu. Non urlare, taci” e mi baciò.
A volte osservo il figlio del Fiore Nero che ho messo alla luce e mi
chiedo perché sa guardarmi in modo così profondo, sembra beffarsi di me,
volermi parlare, ma non dice nulla. E’ nato forse senza voce, non
piange. Io gli do il piacere più dolce del dolore, incido la sua piccola
schiena dorata di pelle liscia e ne bevo il sangue, non so essere madre,
ho vissuto ancora troppo poco per fermarmi. Vi sono terre sconfinate che
mi attendono ancora lì fuori. Lontano in una cripta c’è uno scrigno di
madreperla rotto, il corpo di uno strano umano già freddo prima ancora
che lo trafiggessi e di cui sento ancora il sapore. In fondo ad una
valle qualcuno sembra ancora gridare il mio nome, mi manca. Perché ho
fatto quel maledetto viaggio? Sì, tanto dolore, piacere, più dell’oro
che non ho mai visto, dell’oro che in fondo non ho mai chiesto. Niente è
cambiato o forse dovrei dire tutto? Devo andare via, dimenticare quello
sguardo e poi quella voce.
Il dolore è tutto mio, nessuno può levarmelo, nessuno può prendere nulla
di me. Sì, sono dannata, in ogni posto, nel mio regno, ai piedi della
Sacerdotessa, nell’arena dove alleno il mio corpo, sotto gli artigli dei
felini con cui mi batto per cercarne il sangue. Niente può
sottomettermi. Nulla di buono può nascere da me. Non lo racconterò mai
però, a nessuno.
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