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Lo Scrigno

 

 

 

Camminavamo da giorni e quei due umani sapevano stare la mio passo. Sanno essere intrepidi gli umani quando vogliono.
La somma pattuita per il viaggio non era delle migliori ma mi divertiva molto l’idea di accompagnare degli umani in quel luogo dove se non ci si muove con cautela si va incontro a morte certa. I resti di qualche monumento commemorativo ai morti, lapidi, cunicoli. Chissà poi perché alcune razze amano seppellire i corpi lasciandoli preda della decomposizione, della resurrezione demoniaca, che schifo. Le fiamme sono un degno premio per chi raggiunge la morte, la fredda e calda morte. In fondo però non è da tutti gustare i piaceri della vita, o della morte dovrei dire?
Volevano andare nelle cripte scavate nelle montagne ed io ce li portavo, era lavoro mio conoscendo in lungo e largo ogni zona di queste terre, monti, boschi, infinite pianure, mi muovevo a mio agio, il passo svelto e loro mi seguivano.
Lui un umano strano, forse elfo chiaro in parte, capelli neri, occhi blu, taciturno, poche parole tanti sguardi. Lei una donna piccolina e fragile, sveglia però e con lunghi capelli biondi. Li avevo incontrati appena fuori dalle terre del regno, giravano solitari e cercavano, cosa non l’ho mai scoperto, non mi interessa. Si erano spinti fin lì perché cercavano un drow, volevano visitare le terre dei morti in compagnia di un drow. Chissà perché, non mi importava neppure questo.

Camminavamo da qualche ora già e nessuno manifestava stanchezza, io andavo avanti cercando i sentieri migliori, non per farli stancare meno, ma per arrivare prima. Volevo vederli di fronte a qualche strano zombie e ricevere la ricompensa. Sostenevano di aver lì una cripta di famiglia dove un antenato della donna aveva fatto sistemare molte monete e gemme. Sarebbe stato mio tutto quel tesoro, forse, se ne avessi avuto voglia.
 

 


Non mi facevano domande ed era piacevole vedere come non si meravigliassero di nessuna delle mie azioni, anche quelle più spinte per provocarli. Non dicevano mai neppure una parola, neanche quando sgozzai un viaggiatore al quale avevo fatto finta di chiedere informazioni lungo un sentiero polveroso tra colline solitarie. Forse erano abituati, ma che importanza aveva.
La prima sera ci fermammo vicino ad un fiumiciattolo, accesi un fuoco e li invitai a riposare vicino ad esso. Loro si scambiarono qualche sguardo ed accettarono il consiglio senza dir nulla. Erano davvero taciturni. Arrostirono dei funghi colti durante il viaggio e si addormentarono.
Io ne approfittai per girare un po’ da sola, mi piaceva tanto potermi finalmente godere in silenzio la notte, calda e rassicurante e poi avevo fame, di dolore. Sapevo muovermi senza fare rumore grazie agli anni di lunghe traversate, sempre sola. C’era un alce dietro una roccia sporgente ed io lo attesi. Gettai la spada a terra e quando si avvicinò a me mi ci lanciai contro di petto. Sentii le sue corna trafiggermi il ventre. Ah incredibile piacere di caldo sangue che scorre, una fitta forte, sorridevo a quel cielo buio senza luna e cercavo il pugnale dietro la mia schiena. Nessuna sofferenza per lui, il dolore è degno solo di chi sa amarlo, agli altri morte veloce, senza gusto. Gli tagliai il collo mentre cercava disperatamente di aggrapparsi alla vita, come mai avevo fatto io. Sono maledetta, straordinariamente maledetta dal Fiore Nero, mi tortura di spasmi quando glielo chiedo, nulla di buono può avvicinarsi o nascere con me. Ma cos’è buono? Calde quelle carni ancora vive e pulsanti ma dovevo cuocerle prima, non amo la carne cruda, mi piace il fuoco. Bruciare.

Tornai verso l’accampamento, loro stavano dormendo ed io ancora gemevo di piacere premendomi lo squarcio sul ventre, torpore irrigidiva le mie mani, presto purtroppo sarebbe passato.
Avevo tagliato la carne dell’alce a piccoli pezzetti ed erano tutti infilati in un lungo bastoncino. Solo il necessario per sfamarmi, il resto lo avevo lasciato alla carcassa per eventuali predatori affamati. Bisogna aiutarsi tra amici. E poi la lotta a me, a loro il cibo. La lotta è solo mia.
Rianimai le braci quasi spente e sedetti accanto al fuocherello rigirando la carne sul calore, grasso colava sui carboni accendendo frecce e scintille che subito si spegnevano.
“E buona vero la carne appena cacciata e calda?” mi chiese la donna che si era svegliata ed alzata a sedere sul suo giaciglio di pelli. Mi guardava in modo strano, l’avrei sgozzata volentieri ma non potevo far arrabbiare l’uomo, dovevo prima avere quel tesoro. Mangiai un primo pezzetto, quasi crudo, incandescente, mi bruciai la lingua. Era ottima sì, quel dolore era solo l’inizio del gusto che si impossessava della mia bocca. Forse avrò fatto un gesto che doveva sembrare un invito perché lei mi disse “No non mangio carne, grazie”, non magia carne, era insignificante quella donna, anche nei gusti.
Mi chiesi perché si muovesse verso me come una pantera affamata mentre si avvicinava al fuoco carponi. Non era quello che avevo in mente la compagnia. La notte è mia, mi appartiene, odio chi mi disturba. Mi fissava mentre mi sporcavo labbra e mento di grasso incandescente, di sangue caldo, era davvero ottima quella carne, il dolore sul ventre spariva, perché mi tortura così la mia bella dama? Perché non mi ha fatto meno resistente? La donna non poteva vedere però, il mio sangue si stava raggrumando sotto la fascia di cuoio del corpetto, quel dolore era solo mio. Mi stava fissando con insistenza, sorrideva. Come le avrei volentieri graffiato via quegli occhi, rivoltante.
“Come sei bella, la tua pelle sembra quella di una statua, ti osserverei per ore ed ore” mi stava parlando con quella vocina stridula, perché mi guardava come se mi desiderasse? La faccio smettere subito se non lo fa da sola. Smisi di masticare “Dovete dormire, domani si riparte di buon ora se vogliamo arrivare al cimitero prima che il sole sia alto sulle nostre teste” va a dormire sciocca, inutile donna, dormi e lasciami godere di questi momenti, sola col mio dolore, il sapore, il fuoco. Lei mi guardò ancora in silenzio e poi eseguì l’ordine, sì perché il mio era un ordine. Si rimise a dormire. Ancora uno spasmo, mi toccai il ventre, sangue, era mio così come quella carne selvatica e calda. Lasciai che ogni mio istinto si chetasse, la fame saziata, il desiderio del dolore languiva ancora tra le mie carni ma chiesi alla notte di farmi dormire e così fu.

Qualcosa mi sfiorò i capelli la notte, l’ho sentito, la mattina il mio squarcio non c’era più, il ventre liscio senza nessun segno. Come era possibile? Non potevo chiederlo ad alcuno. Forse il mio Fiore Nero voleva punirmi perché non avevo ucciso quella donnicciola, perché preferivo possederne il denaro. Vi è tempo però, sto rimandando, Sì avevo deciso, l'avrei uccisa.

Ci rimettemmo in viaggio di buon’ora, lui non aveva detto una sola parola al risveglio, ogni tanto guardava lei e le stringeva la mano, un sorriso e poi tornava nel silenzio. Non mi guardava mai.
Trovai un passaggio stretto tra due rocce, lo conoscono in pochi, e trascorremmo così diverse ore a percorrere una stretta gola dove non giungeva quasi il sole. Puntellai con la spada su un mucchietto di foglie e muschio vicino ad una parete molto liscia, pensai che quelle foglie non erano state portate lì dal vento e non vi erano alberi nelle vicinanze. C’era qualcuno lì vicino e era appena passato. Camminammo ancora per qualche tempo, lei a volte mi guardava, sorrideva, io la vedevo già morta, non so perché ma aveva la faccia dei cadaveri in decomposizione. Cos’era il mio, desiderio? Il futuro? Il Fiore Nero? Non aveva importanza.

Finalmente aprì bocca quello strano uomo, con sangue misto, aveva una voce così bassa, non lo ricordavo “Lasciatela lì, continueremo il viaggio da soli io e voi” ed indicava la donna che gemeva in una buca, una trappola per orsi forse, era caduta ferendosi una gamba. Quelle foglie ecco cos’erano, trappole. Ah se solo fossi caduta io, dolore. “E’ ferita arresterebbe il nostro cammino. Oramai siamo vicini” continuò. Com’era freddo, un umano così freddo. Le sorrideva prima ed ora la lasciava morire e lei tra le urla insisteva “Lasciatemi qui, non fermatevi”. Sì sono gli umani più assurdi che abbia mai visto, disarmanti, ma non potevo permettere che una stupida buca facesse quello che io dovevo fare, io dovevo strapparle quegli occhi, dovevo ucciderla, io, solo io. Fingere, sono brava a farlo “Cosa dite? Siete impazzito? Morirà così, la tiro fuori da lì e rallenteremo un po’ il passo, so curare comunque le ferite” e srotolai la corda che portavo nella mia sacca, lui mi fermò il braccio con prepotenza “No, ho detto. Lei è mia e decido io cosa farmene. Tu devi eseguire i miei ordini, ti ho dato un largo anticipo per questo ed altro oro ti attende lì” “Ordini? Non prendo ordini da nessuno. Fate come vi pare, la donna è la vostra e non toccatemi” gli indicai la mano ancora stretta sul mio braccio, perché mi dà del tu? Come mai questa confidenza ora? Uccido prima lui.
Ora lei urlava di salvarla, non voleva stare lì, chiamava me, urlava il mio nome. Dovevo farla smettere. Mi infastidiva anche il sorrisino di lui, mentre strusciava la sua mano sul mio braccio e poi lo lasciava. Sì, dovevo ucciderli entrambi, prima l’oro però.

Finalmente riprendemmo il cammino, lui ed io, in silenzio, le urla ce le eravamo lasciate indietro, il mio nome smetteva di echeggiare tra quelle pareti rocciose. L’ingresso di quelle che chiamano catacombe si vedeva già in lontananza: era un’apertura tra pietre grigie che spezzavano il monotono colore verde dei rampicanti alla fine di una piccola macchia di bosco. Giungemmo lì e ci fermammo “Bene ci siamo, il mio viaggio finisce non appena vi condurrò dentro e vi indicherò la discesa per le tombe, vi accompagnerò fino alla vostra cripta e mi darete l’oro, poi ci lasceremo” lui era d’accordo, meglio così. Che nauseante odore, la carne marcia, la muffa, poi un’ombra veloce ci passò attraverso. Sentii dolore sul ventre, finalmente ancora dolore, tutto mio. Eppure la ferita non c’era più, lui mi sorrise ambiguamente, chissà perché. E chissà perché camminava come se già conoscesse quel luogo. Non aveva importanza. C’era troppo silenzio, nessuna presenza e giungemmo davanti ad una cripta chiusa da vetri sporchi ed opachi. Lui estrasse una chiave scura e lunga e aprì l’ingresso. Dentro c’era solo una pietra rettangolare a terra, sulla quale erano state scolpite due stelle a sei punte, vicine. In un angolo una lanterna spenta e coperta di polvere spessa e grigia. Mi fermai sull’uscio e lui entrò, sollevò quella pietra, potevo vedere per la prima volta i muscoli forti delle braccia. Si sollevò una polverina verdognola dalla buca che aveva appena scoperchiato, mi ritrassi, non amavo gli odori dei cadaveri, volevo il dolore, come lo stavo desiderando in quel momento. La mia debolezza.
Lui si chinò a terra e raccolse qualcosa da dentro quella buca, uno scrigno di madreperla. Me lo porse e mi disse sorridendo “Aprilo, quello che c’è qui è anche tuo” era mio tutto sì e lui non lo sapeva. Potevo prendere lo scrigno e poi spingere lui nella buca, ucciderlo tagliandogli la gola, staccandogli la testa e lasciarlo lì. Gli uomini amano la sepoltura, niente fuoco per lui. Lo scrigno era nelle mie mani, mio dovevo solo capire cosa ci fosse lì, quanto oro poteva esserci in uno scrigno non troppo grande. Se era stato un imbroglio lo avrei ucciso nel peggiore dei modi, lo avrei strozzato con le sue stesse interiora. Aprii quello scrigno e... no! Come è possibile è un cuore, un cuore pulsante, vive, dannazione che cosa significa! Lui era dietro di me, mi cingeva la vita con le sue braccia forti, premeva le mani sul mio ventre con violenza, dolore, piacere. “Avevi dimenticato il cuore dell’alce, mai lasciare agli avvoltoi il cuore di una preda, non si sa mai cosa ne possano fare” mi stava scostando i capelli dal collo e mi baciava mordendo con le labbra. Non potevo resistere oltre, anche se l’insaziabile piacere che si era rifatto vivo nel mio ventre mi immobilizzava, volevo goderne, dovevo reagire, lo dovevo uccidere. Mi girai veloce e gli puntai il pugnale alla gola “Cosa significa? Dov’è l’oro? Parla o ti uccido all’istante” “No piccola perla nera tu non puoi farlo, lo sai, io sono immortale come il dolore che ora ti rende lo sguardo languido, sono quello che vuoi, la dannazione, il tormento. Lei invece quello che non hai, la pazienza, la sottomissione. Lei ti vuole così come vuole me, come io voglio te. Ma tu resterai qui, nel mio scrigno, solo per me perché in te vi sono io oramai” mi disse lui sfiorandomi solo con lo sguardo il ventre che ora bruciava, com’era possibile? Fiamme nel mio corpo, dolore, mi consumava e non riuscivo a reagire. Può il Fiore Nero avermi fatto tale dono? Dolore eterno, invisibile, solo mio? Devo ucciderlo. Lo scrigno cadde a terra e la madreperla che lo ricopriva si frantumò, quel cuore iniziò a pulsare sul pavimento di pietre e terra. Tun Tun! Pulsava ancora senza sosta, vivo. “Non provare a ribellarti Waela, l’alce ero io, quel cuore è il mio, io sono entrato dentro te, tu hai mangiato la mia carne, goduto del dolore che io ti ho dato. Lei non sa o forse sa, lei ti attende ancora. No non sono un demone sono il tuo Fiore Nero, ho mille volti, ho mille sentimenti, ho mille corpi, ti ho scelta. Mi appartieni ed è quello che vuoi anche tu. Non urlare, taci” e mi baciò.

A volte osservo il figlio del Fiore Nero che ho messo alla luce e mi chiedo perché sa guardarmi in modo così profondo, sembra beffarsi di me, volermi parlare, ma non dice nulla. E’ nato forse senza voce, non piange. Io gli do il piacere più dolce del dolore, incido la sua piccola schiena dorata di pelle liscia e ne bevo il sangue, non so essere madre, ho vissuto ancora troppo poco per fermarmi. Vi sono terre sconfinate che mi attendono ancora lì fuori. Lontano in una cripta c’è uno scrigno di madreperla rotto, il corpo di uno strano umano già freddo prima ancora che lo trafiggessi e di cui sento ancora il sapore. In fondo ad una valle qualcuno sembra ancora gridare il mio nome, mi manca. Perché ho fatto quel maledetto viaggio? Sì, tanto dolore, piacere, più dell’oro che non ho mai visto, dell’oro che in fondo non ho mai chiesto. Niente è cambiato o forse dovrei dire tutto? Devo andare via, dimenticare quello sguardo e poi quella voce.
Il dolore è tutto mio, nessuno può levarmelo, nessuno può prendere nulla di me. Sì, sono dannata, in ogni posto, nel mio regno, ai piedi della Sacerdotessa, nell’arena dove alleno il mio corpo, sotto gli artigli dei felini con cui mi batto per cercarne il sangue. Niente può sottomettermi. Nulla di buono può nascere da me. Non lo racconterò mai però, a nessuno.
 

 

 

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