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“Ah, ma cosa ne sanno
loro! Come possono sapene cosa succede quando il metallo cede sotto
le mie pressioni e diventa forma!”
Continuava a picchiare duro sull’incudine, col martello, su quel
pezzo di ferro oramai morbido e già piatto. Continuava con rabbia,
con forza, facendo sempre più rumore.
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“Ma come? Come si fa a pensare che usare la
forza per scolpire un blocco di marmo sia arte mentre due unicorni,
alla base dell’elsa di una spada, forgiati col caldo e con la
dedizione, non lo siano?”.
Il fioco bagliore delle braci dentro la fucina le illuminava gli
occhi. Erano verdi. Un verde a volte scuro di buio, a volte chiaro
tanto da sembrare irreale. Ora erano rossi, il colore aveva lasciato
spazio al fuoco, al fuoco che viveva del carbone, della passione,
della rabbia.
Osservava la lama diventar sempre più sottile sotto i suoi colpi,
più affilata. Perfetta. Si fermava di tanto in tanto, alzava la
spada sopra la sua testa, la impugnava con entrambe le mani e in
essa vi riusciva a vedere sempre più chiari i contorni del suo volto
che si riflettevano. “Sì, sei bella, la mia migliore spada. Faccio
te e in questo posto non ci torno più. Sarai il mio ricordo, la
parte più buia di me. Ciò che mi ricorderà sempre chi sono.”
Non sorrideva, il volto non conosceva la gioia quando era in quella
stanza sporca, dove ogni cosa era coperta da una sottile polvere
grigia. “Il sorriso perenne è solo sulla bocca degli stolti. Sorride
chi non conosce il dolore, e chi non lo conosce non sa cosa vuol
dire gioire”. Ancora una volta il martello colpì quella lama, più
forte. Di nuovo.
Guardava di tanto in tanto lo stampo dell’elsa dove il metallo fuso
oramai aveva preso forma. “Ho impiegato dodici anni della mia vita
prima di riuscire a realizzare uno stampo degno di una lama
perfetta. Dodici anni alla ricerca della forma che fosse il giusto
compromesso tra il bilanciamento e arte. Ah ma non è arte! Già! È
solo uno sporco lavoro da fare coi muscoli. Un mestiere da elfo!
Come può un’elfa creare una cosa che tolga la vita e che richiede
forza. Ma che ne sanno della forza. Che ne sanno di quanta forza
serva per non uccidere chi ha ucciso”. Si sfiorò distrattamente la
lunga cicatrice che le segnava il collo.
Lasciò la lama sui carboni ardenti, era oramai divenuta la sua forma
perfetta. Staccò piano l’elsa dallo stampo, vi soffiò sopra. Appena
la patina di vapore sparì del tutto l’oro brillò. I due unicorni,
che si guardavano alzandosi selvaggi sulle zampe posteriori, la
guardarono.
Il giallo dell’oro le ricordò come gli uomini sprecassero quel
meraviglioso dono per coniare dischetti da scambiare con merce, da
scambiare con favori, con armi, o con la morte.
Prese la lama e la lasciò raffreddare sul pianale di ferro. Con
calma cercò la sua lanterna, la accese e la mise accanto alla lama.
Tornò verso la fucina. Si fermò d’improvviso chinandosi verso il
calore. Le guance divennero rosse. Una lunga treccia sfuggì al
laccio di cuoio che la legava alle altre e finì sul carbone più
incandescente. I capelli si bruciarono. Chiuse gli occhi, respirò
profondamente e sentì la testa girare mentre il caldo le bagnava di
silenzio l’anima. Guardò per l’ultima volta davanti a se e lasciò
che le braci divenissero cenere.
“Il calore mi ha dato la vita. Il mio freddo dà la morte”. Guardava
le rune appena incise sulla lama e pensava che mai quelle parole
avrebbero avuto un seguito.
Il tempo si accelerò. Sciolse le trecce, fece ricadere la lunga
tunica bianca sul suo corpo ancora sudato. Chiuse quell’armadio per
l’ultima volta e vi lasciò dentro il suo mondo, la sua arte.
Girò in fretta la chiave nella toppa. Si guardò indietro ancora una
volta. Tutto era in ordine. Come sempre.
Il vento teso le bruciava sulle guance calde. La tunica si alzò e
con essa il mantello. Un solo istante e la lama luccicò per poi
tornare a nascondersi sotto il caldo velluto.
“Eccola”. Il vecchio maestro corrugò la fronte. “Non leggere. Non ha
importanza. Sono un’elfa e lo sai che mi piace fantasticare”. L’elfo
non ascoltò, lesse. Soppesò l’arma e sfiorò la lama con un dito. La
pelle delle sue mani oramai ispessita e ruvida sembrò per un momento
contrarsi. Guardò per la prima volta l’elfa negli occhi.
D’improvviso sembrò più vecchio, stanco. “È la più bella spada che
io abbia mai visto nella mia lunga vita, elfa”. Quelle parole dette
piano e con la solita calma le risuonarono in testa per molto tempo.
L’elfo tornò ad ammirare l’elsa, le foglie si intrecciavano ai piedi
dei due animali dal lungo corno. “E non ne vedrai altre, anche se
tu dovessi vivere altri cinquecento anni. In essa vi sono tutte le
armi che non forgerò mai. In essa tutti i miei pensieri. In essa vi
sono io”. Il maestro restituì la spada all’elfa. Lo fece
solennemente e lei capì perché.
“Ti stanno cercando, un giovane alle porte è stanco, confuso, gli
hanno mozzato un orecchio. Serve la tua parola di conforto”. Annuì
piano. Per l’ultima volta quella lama brillò prima di sparire per
sempre nel buio, sotto la sua bianca tunica che elfa la faceva tra
gli elfi. “So che non tornerai mai più lì e io so che non aprirò mai
più quell’armadio. Che il grigio ricopra pure le sue vecchie ante”.
Staccò gli occhi da quelli di lei, l’elfo. Si appoggiò al bastone
nodoso. Si voltò verso il lungo sentiero. “Hai scelto. Hai scelto la
luce di chi si immola alle Dee lasciando il buio di chi si illude di
servirle. Và”. Non lo rivide mai più.
Ancora una volta quello strano vento fatto di gelo e profumo. L’elsa
si dibatté tra le pieghe del mantello e fece sentire al mondo la sua
esistenza. Lei la nascose. Per sempre. Camminò fino alle porte senza
pensieri, senza espressioni. Gli occhi tornarono verdi. Gli unicorni
smisero di guardarla.
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